A cura di Davar Sahrai
La principale sfida della società moderna è sicuramente la grave emergenza climatica. Nel 2022, le emissioni di CO2 globali hanno raggiunto livelli record, i più elevati nell’atmosfera degli ultimi 800.000 anni. (Climate, 2023). Inizialmente la cooperazione contro il cambiamento climatico si basava su accordi internazionali vincolanti. Tuttavia, i limiti della cosiddetta governance normativa sono emersi con il Protocollo di Kyoto del 1997. L’articolo analizzerà questi fallimenti e mostrerà la necessità di soluzioni nazionali con partecipazione universale, come indicato dall’Accordo di Parigi del 2015. In particolare, verrà mostrato come il modello “catalitico” abbia risolto alcuni dei problemi precedenti. Infine, si esamineranno i limiti delle politiche climatiche attuali e la necessità di un forte impegno da parte di altre istituzioni e della società intera che complimentino gli impegni di Parigi per salvare il pianeta.
Prima di analizzare gli attuali accordi internazionali sul cambiamento climatico, è necessario comprendere gli sviluppi passati più importanti:
CONVENZIONE QUADRO DELLE NAZIONI UNITE SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI (UNFCC), 1992
L’ UNFCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) è stato un accordo storico ratificato da 197 Paesi a Rio de Janeiro; il primo trattato globale ad affrontare esplicitamente il cambiamento climatico. Ha istituito un forum annuale, noto con l’acronimo COP, per le discussioni internazionali volte a ridurre le emissioni dei gas serra nell’atmosfera. Da questi incontri sono scaturiti il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi.

PROTOCOLLO DI KYOTO, 2005
Il Protocollo di Kyoto, adottato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005, è stato il primo trattato sul clima giuridicamente vincolante. Esso imponeva ai paesi sviluppati di ridurre le emissioni in media del 5% rispetto ai livelli del 1990 e istituiva un sistema di monitoraggio dei progressi compiuti dai paesi.

I limiti del passato
Sono sorti diversi problemi a causa della natura vincolante dei trattati internazionali sul clima pre-Parigi. Il Protocollo di Kyoto si basava sull’idea che scadenze obbligatorie avrebbero indotto i governi a prendere più seriamente la questione ambientale. Tuttavia, l’obbligo di una rigorosa osservanza degli obiettivi, ha fatto si che gli stati sottostimassero i propri impegni per rientrare nei parametri, dando forma a dei protocolli “conservatori” rendendo gli UNFCC incapaci di imporre soluzioni efficaci.
Inoltre, un grosso limite della governance normativa è rappresentato dal fatto che interessi contrastanti si scontrano con decisioni che dovrebbero richiedere un consenso unanime. Kyoto non obbligava i paesi in via di sviluppo, tra cui i principali emettitori di carbonio, Cina e India, ad agire, causando la resistenza di molti paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti che nel 1998 ritirarono la propria firma. Nei successivi anni, le COP erano diventate un insieme di riunioni senza alcuna vera ambizione.
Il punto di svolta: l’Accordo di Parigi
Il Trattato di Parigi del 2015 ha posto fine a una situazione di stallo durata tredici anni risolvendo alcuni dei difetti dei tratti precedenti, coinvolgendo i paesi sia sviluppati che in via di sviluppo. La differenza cruciale che ha permesso tutto ciò è stata che rispetto alle convenzioni passate con obiettivi vincolanti, Parigi si basa su un modello “catalitico”. Invece di fissare gli obiettivi attraverso una contrattazione centralizzata, l’approccio di Parigi lascia che i paesi siano liberi di stabilire i propri con gli NDC, accelerando di molto i processi. Inoltre, i governi sono più responsabili nei confronti della loro popolazione e quindi basano i loro sulla loro capacità realistica di raggiungerli. I paesi hanno quindi potuto elaborare piani senza l’incentivo di fare promesse conservative per raggiungere obiettivi rigorosi, come avveniva a Kyoto. Pertanto, queste caratteristiche hanno permesso per la prima volta ad un accordo sul clima di avere un impatto iniziale tangibile sulle emissioni, in quanto queste non sono bloccate o rese inefficienti.

L’Accordo di Parigi, il più significativo accordo globale sul clima, richiede che tutti i Paesi si impegnino a ridurre le emissioni. I governi fissano degli obiettivi, noti come contributi determinati a livello nazionale (NDC), con l’obiettivo principale di evitare che la temperatura media globale aumenti al di sopra di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.
Parigi non basta
L’Accordo di Parigi è stato un passo importante nella giusta direzione per affrontare il cambiamento climatico. Tuttavia, secondo l’ultimo report ONU gli impegni presi nel 2015 sarebbero insufficienti per evitare che la temperatura media globale aumenti al di sopra di 1,5°C, soglia che verrebbe già raggiunta nel 2035 (IPCCC). Ciò potrebbe comportare effetti disastrosi come ondate di calore estreme, siccità, alluvioni, innalzamento del livello del mare, migrazioni climatiche e carestie.
L’Accordo però prevede che gli stati fissino nuovi obiettivi ogni cinque anni nel sistema di impegni e revisioni e quindi possono costantemente ambire a dei target più alti. Dal 2015, ben 128 Paesi hanno presentato nuovi obiettivi NDC. Tuttavia, ulteriori misure sono necessarie per prevenire conseguenze catastrofiche. Attualmente la temperatura è di circa 1,1°C e si prevede che le attuali politiche climatiche aumenteranno il riscaldamento globale di 2,7°C entro il 2100! (Climate Action Tracker). Data la gravità della situazione, non ci devono essere più stati che si ritirino dall’accordo come successo con gli USA di Trump nel 2016.

I trattati internazionali attuali non basteranno da soli per combattere il cambiamento climatico, ma Parigi ha indotto nuovi attori ad agire. Per esempio, è stato creato il C40 Cities Climate Leadership Group che riunisce 97 città di tutto il mondo con lo scopo di promuovere azioni urbane che riducano le emissioni di gas serra. Inoltre, negli ultimi anni sono aumentati gli impegni da parte di diversi paesi del G20 che si sono impegnati a ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030. Multinazionali come Microsoft e Ford hanno dichiarato di volere raggiungere emissioni zero entro il 2050. Sarà da vedere se ciò accadrà spinti dalla pressione di diverse ONG e movimenti internazionali come Fridays for Future. È ancora possibile garantire un futuro vivibile per tutti se si integrano sforzi maggiori da parte delle istituzioni subnazionali, delle imprese multinazionali e della società civile, insieme a obiettivi NDC più ambiziosi.
Non è troppo tardi
Sin dall’inizio dei negoziati sul clima, i governi hanno stabilito obiettivi ambiziosi senza avere una chiara strategia di come raggiungerli. L’Accordo di Parigi del 2015 con il suo modello catalitico ha rappresentato un passo in avanti rispetto ai trattati vincolanti come il Protocollo di Kyoto. Allo stesso tempo, permane una grande incertezza sull’efficacia delle politiche climatiche attuali per mantenere il riscaldamento globale entro dei limiti accettabili.
Tuttavia, la partecipazione universale di Parigi ha spinto diversi attori non statali ad agire. Serviranno molti più sforzi al di fuori della stretta governance climatica, per invertire la rotta. Non è però troppo tardi per contrastare il cambiamento climatico, ogni decimale di grado di riscaldamento globale che evitiamo contribuirà a prevenire o a ridurre gli impatti futuri.
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