A cura di Giulia Bertozzi
“Inclusione: in Italia il 38% delle aziende non ha una policy neutrale per la selezione del personale”
“Un impiegato di 30 anni guadagna il 34% in meno di un collega 60enne”
Titoli dal Corriere della Sera
Leggendo questi titoli, secondo voi siamo un paese dove regna l’inclusione e al tempo stesso viene rispettata la diversità nel mondo del lavoro? Forse questa è una domanda che avrebbe bisogno di anni di ricerca per avere un’effettiva stima di come sia la realtà dei fatti. Modestamente mi permetto di rispondere che queste parole, cariche di significati profondi e comuni a tutti, non sono contemplate nel vocabolario del mondo del lavoro italiano.

Considerando i diversi incentivi promossi dalle tante aziende private e organi statali, ad esempio per citarne uno molto interessante, il progetto “ToDei” di Mediobanca, il “Piano Garanzia Giovani” istituito dall’UE e il “Piano Nazionale Giovani” proposto dal Governo italiano, e potrei riportarne molti altri, siamo certi che trovino davvero realizzazione nella vita reale, e che soprattutto aiutino un giovane a far parte di un’azienda che non discrimini la sua diversità, anzi ne faccia una risorsa? Secondo me, qualunque brillante ragazzo e ragazza risponderebbe no, giustificando la sua risposta allegando servizi televisivi, articoli di giornale o esperienze personali che mostrano tangibilmente lo squilibro presente tra le tante smielate parole e l’effettiva realtà.
Ma facciamo un passo indietro, che significato hanno le parole inclusività e diversità nell’ambito lavorativo? Certamente possiamo dire che questi concetti indipendenti siano legati da un’anima comune: tolleranza, rispetto e cooperazione. L’idea centrale di inclusione è che tutte le persone, a prescindere da età, sesso, origine, fede, disabilità, pensieri politici ecc.… dovrebbero avere le medesime possibilità di accedere alle stesse opportunità e risorse lavorative. Contemporaneamente, le diversità che caratterizzano ogni candidato, devono essere viste come un punto di forza dell’azienda, una sorta di valore aggiunto.

L’articolo di ESG360
Un articolo di ESG360 (testata giornalistica italiana del mondo di Environmental, Social e Governance) riporta che “c’è una crescente tendenza tra le giovani generazioni di lavoratori a tenere in grande considerazione valori come diversità, parità e inclusione nel mondo del lavoro. La generazione Z e quelle più giovani stanno crescendo in un ambiente che è molto caratterizzato da inclusione e neutralità di genere”.
Ed è questa la realtà, tutti i ragazzi e le ragazze, oltre che per ragioni economiche, sono mossi da questo genere di motivazioni nel prendere una decisione. Non si può più ignorare questa tematica, è impregnata anche nel settore lavorativo, oltre che sociale. Nonostante siano argomenti affrontati periodicamente, potremmo creare una lista infinita di situazioni illegittime e pregiudizievoli che molti giovani hanno vissuto e stanno vivendo; basti pensare alle ragazze che subiscono quotidianamente domande dal datore di lavoro sul se e quando vorranno avere figli, se intendono sposarsi o meno, oppure ancora, ragazzi che vengono valutati idonei, al lavoro, sulla base dell’orientamento sessuale o l’etnia.
Potremmo aggiungere anche altri esempi collegati alla discriminazione, basata sull’esperienza professionale del giovane, alle skills che possiede, di cui tanto sentiamo parlare, ed infine anche sulle caratteristiche fisiche che il candidato ha.

Non siamo estranei a questo genere di argomenti. Sentiamo ogni giorno, dai vari canali di divulgazione, notizie strettamente connesse a questa tematica. Vorrei, però, essere più chiara ed è per questo che ho scelto un esempio molto tangibile e reale, conosciuto sicuramente da tanti, il quale ha suscitato un enorme scalpore. Mi riferisco al caso dell’imprenditrice italiana Elisabetta Franchi, la quale durante il convegno “Donne e moda: il barometro 2022” organizzato da PwC Italia e Il Foglio, dichiara che “Io oggi le donne le ho messe ma sono ‘anta’, delle ragazze cresciute: se dovevano sposarsi si sono spostate, se dovevano fare figli li hanno già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello. Le prendo perché hanno fatto tutti e quattro i giri di boa”. Come può una giovane ragazza sentirsi inclusa e rispettata nel mondo del lavoro ascoltando queste parole?

Attraverso questo caso volevo evidenziare come la realtà dei fatti è effettivamente, la Franchi, con termini assolutamente sbagliati e discriminatori, ha descritto una situazione diffusa e un pensiero condiviso da molti datori di lavoro. Un giovane, che cerca inclusione e rispetto delle diversità, non verrà mai attratto dalla offerta lavorativa italiana, anzi sarà sempre più incentivato, da tali comportamenti, nel ricercarlo all’estero.
L’imprenditrice italiana Elisabetta Franchi La risposta di tanti è individuare il capro espiatorio a cui addossare tutte le colpe di questa disprezzabile situazione, infatti molti indirizzano il tutto allo Stato, secondo i quali non fornisce gli adeguati sostegni per far fronte alle spese della gestione del personale, altri ancora riversano la loro indignazione verso i datori di lavoro, colpevoli di non avere cura della diversità degli individui, ed infine i più classici puntano il dito contro il sistema, convalidando la loro tesi con la solita frase “è colpa della società in cui viviamo”.
Concludendo
Il filo conduttore che lega tutto questo insieme di problematiche è la mancanza di una presenza che aiuti lo sviluppo di gruppi che affrontino questo reale problema: la discriminazione sul posto di lavoro. Ormai i tempi sono cambiati e sono mutate anche le esigenze dei lavoratori. Non si ricerca più solo il guadagno, il “posto fisso”, la stabilità (tutti ovviamente requisiti importanti), ma anche il rispetto di elementi sociali e umani. Servirebbe uno stato più presente nell’insegnare e nel formare i privati, in modo tale che imparino a preoccuparsi della parità, dell’inclusione e della diversità, per attirare a sé tanti giovani vogliosi di mettersi in gioco. Non è sufficiente fornire supporti come il “Piano Nazionale Giovani” , assolutamente utili per incrementare l’occupazione giovanile, se poi la conseguenza è trovare discriminazione e non inclusione sul posto di lavoro.

Si dovrebbe investire maggior denaro pubblico per far fronte a queste tematiche, in modo tale da poter creare supporti che periodicamente forniscono consulenze alle aziende per sensibilizzarli sulle nuove richieste che hanno i giovani, oppure affiancare al famoso e ripetuto “Piano Nazionale Giovani” un “Piano per inclusione e diversità all’interno delle aziende italiane”, destinando quei fondi al miglioramento del settore delle risorse umane. Ovviamente, si potrebbe anche inasprire la normativa, sanzionando maggiormente i datori di lavoro che adottano un comportamento discriminatorio, ma questo richiederebbe anche che si istituisca un ulteriore organo di controllo e supervisione che effettivamente esamini tali situazioni.
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